Friday, May 30, 2014

Una legge come punto di partenza


Lorenzo Campioni*

Sono in gioco i diritti dei bambini,
delle famiglie e delle educatrici e insegnanti
e la qualità di vita della società:
ognuno faccia la propria parte!



Per una felice coincidenza poche settimane prima del
XIX Convegno del Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia
Educazione e/è Politica”, che si è tenuto a Reggio Emilia
dal 21 al 23 febbraio scorso in ricordo di Loris Malaguzzi,
è ripreso al Senato l’iter della legge sui servizi zero-sei (1).
Un testo che, se approvato senza grandi stravolgimenti e con
alcuni miglioramenti, costituirebbe una svolta radicale nelle
politiche verso l’infanzia in questo Paese in cui il Governo
centrale (2) non ha mai dedicato risorse e attenzione continuative
all’attuazione del diritto alla cura e alla educazione dei
cittadini più piccoli: uno Stato colpevolmente assente sotto
l’aspetto della governance del sistema educativo complessivo.
Numerosi e forti sono i punti di condivisione del disegno
di legge n. 1260. Nel testo si sottolinea la funzione
educativa dei servizi educativi e delle scuole
dell’infanzia, visti nella loro continuità progettuale
e interdipendenza, dato che, nell’età infantile, la cura e l’educazione
sono profondamente intrecciate. Una conquista
dovuta non solo ai progressi e alle ricerche nelle scienze psicologiche,
pedagogiche… ma anche nelle neuroscienze e in
quelle economiche e soprattutto alle esperienze di qualità e
ricerche fatte nei servizi educativi e nelle scuole dell’infanzia.
Un salto culturale notevole che va sempre innovato per
non cedere alle tentazioni assistenzialistiche e conciliative al
ribasso che periodicamente si ripresentano all’orizzonte. Finalmente
verrebbe superato per la fascia 0-3 anni lo stigma
di servizio a domanda individuale, una delle cause principali
ostative alla sua espansione a livello nazionale.
Il disegno di legge ci avvicina alle ultime linee di indirizzo
europee (Comunicazione n. 66/2011 e Raccomandazione del
20 febbraio 2013 della Commissione europea) che considerano
lo 0-6 una tappa basilare per lo sviluppo individuale
e sociale. Servizi e scuole in cui è ancora possibile attuare
un “miscelamento sociale” e recuperare svantaggi derivanti
da situazioni disfunzionali, grazie a educatori e insegnanti
preparati, formati e sostenuti nel loro lavoro. Un testo che
fa tesoro delle esperienze più consolidate e significative del
nostro territorio nazionale e non solo.
La proposta di legge definisce puntualmente le funzioni:
dello Stato, che finalmente rientrerebbe in campo e dovrebbe
definire o rivedere, in tempi certi, i livelli essenziali
delle prestazioni del sistema (obiettivo del 33% per i servizi
educativi, generalizzazione della scuola dell’infanzia,
formazione di base universitaria per l’accesso al ruolo di
educatore, rapporti numerici, standard strutturali e organizzativi).
Inoltre il disegno obbliga lo Stato a emanare il
Piano d’azione nazionale che deve prevedere risorse certe
per l’estensione (33%), la generalizzazione (per la scuola
dell’infanzia con il superamento degli anticipi) e gestione
di servizi e scuole dell’infanzia;
delle Regioni, che vengono riconfermate nel loro ruolo normativo,
di programmazione e di sostegno a un sistema di
qualità ma all’interno di una cornice nazionale forte grazie
ai livelli essenziali; ciò dovrebbe consentire, finalmente, in
sede di Conferenza delle Regioni e Province autonome, di
concordare modalità strutturali e organizzative omogenee,
almeno per macroaree, superando gli attuali 21 sistemi regionali
di normazione estremamente diversificati;
degli Enti locali, che sono visti come i garanti della quantità
e qualità dei servizi sul loro territorio. In particolare viene
sottolineata la capacità di governance locale tramite gli
strumenti dell’autorizzazione al funzionamento e l’accreditamento
e con la messa in atto di programmi di formazione
e di coordinamento di sistema a livello territoriale.
Il disegno di legge è pienamente armonizzato con tutte le
norme che regolano attualmente le scuole dell’infanzia, un
vero ponte tra i servizi 0-3 e la scuola primaria. L’unico punto
che viene abrogato è l’anticipo (art. 2, comma 1, lettera e)
della legge 28 marzo 2003, n. 53), una vera piaga soprattutto
nell’Italia del Sud e nelle Isole ma che oggi si sta espandendo
al Centro e al Nord. Solo con un intervento statale forte,
come negli altri Paesi europei, sarà possibile garantire scuole
dell’infanzia e servizi educativi adeguati e rispettosi dello sviluppo
del bambino e dei diritti dei lavoratori.
Finalmente i servizi educativi avranno un Ministero di riferimento
certo. Oggi le competenze sui servizi educativi sono
spalmate, senza un coordinamento centrale, su: Presidenza
del Consiglio-Dipartimento per le politiche della famiglia,
Ministero del welfare e del Lavoro, Ministero dell’istruzione,
dell’università e della ricerca (per le sezioni primavera) e per
alcuni progetti (es. Pac-piano azione coesione per quattro
Regioni del Sud: Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) il Ministero
dell’Economia e il Ministero dell’Interno.
Un ritardo colpevole nel legiferare da parte dei nostri
legislatori e governanti ci porterà all’implosione
del sistema dei servizi 0-3 anni e le avvisaglie già
ci sono (ritiri, caduta della domanda, bandi sotto
soglia contrattuale, innalzamento di rette, non sostituzioni
del personale) e a un ruolo assistenziale e dequalificato della
scuola dell’infanzia, già ben evidenziato dagli anticipi e
dalla riduzione, o meglio scomparsa, della compresenza del
personale insegnante (vedi orario da 40 a 50 ore settimanali
di apertura).
Un passaggio delicato e importante che il Regolamento
attuativo dovrà affrontare sarà come salvaguardare
l’esperienza accumulata in questi oltre
quarant’anni nei servizi educativi da parte di Enti
locali, di Regioni, di gestori pubblici e privati. Si tratterà di
evitare di incappare nel modello burocratico, disattento ai
diritti dei bambini e omologante che spesso abbiamo dovuto
sopportare nel sistema scolastico italiano. È stato costruito
in pochi decenni, in molte parti del Paese, un patrimonio
materiale e immateriale grande, grazie all’impegno di amministratori
locali, di tecnici, di ricercatori e del personale
che non potrà tollerare di morire di asfissia burocratica
centrale o periferica e rigidità sindacali, spesso irrazionali
e controproducenti. Certamente una condizione necessaria
sarà quella di una forma di coordinamento stabile tra Regioni,
Province autonome, Comuni, gestori pubblici e privati
e Ministero che punti a dare qualità al nuovo sistema
0-6 grazie a progetti, formazione continua e obbligatoria
in servizio, supervisione, coordinamento pedagogico: tutte
caratteristiche attuali dei servizi di qualità e che saranno da
portare in dote al Miur.
Se il disegno verrà approvato in tempi brevi si dovrebbe:
arrestare l’emorragia di iscritti dai nidi e dalle
scuole dell’infanzia e riprendere con forza l’estensione
di una offerta formativa di qualità; procedere con
assunzioni di personale per attivare servizi costruiti e mai
entrati in funzione, data la crisi e le restrizioni sulle assunzioni
e sostituzioni, creando occupazione diretta e indiretta
con benefi ci sul PIL; dare risposte ai Comuni che hanno chiesto
l’istituzione di sezioni/scuole dell’infanzia; avviare nuovi
corsi universitari per la preparazione e la qualificazione degli
educatori e rivedere l’attuale curricolo quinquennale per le
insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria.
Proprio per sostenere un rapido esame in Parlamento, il
Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia ha lanciato dal Convegno
di Reggio Emilia una campagna di raccolta firme per un
appello (3) alle alte cariche dello Stato per ottenere una celere
approvazione di un quadro normativo che attui i diritti dei
bambini alla cura e all’ educazione nell’ arco 0-6.
I servizi per l’infanzia sono stati ottenuti grazie alla lotta e
all’impegno di movimenti femminili, sindacali e delle comunità
locali; di fronte al pericolo reale di una perdita o riduzione
di questa importante conquista di civiltà si tratta di
mobilitarsi.

Note
1) Disegno di legge n. 1260 “Disposizioni in materia di sistema integrato di
educazione e istruzione dalla nascita fi no a sei anni e del diritto delle bambine
e dei bambini alle pari opportunità di apprendimento”, prima fi rmataria
la senatrice Francesca Puglisi.
2) Con la sola eccezione del Governo Prodi dal 2007 al 2009 con “il piano
straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi
socio-educativi”.
3) Vedi il sito del Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia www.grupponidiinfanzia.it


*Presidente Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia

Si ringrazia la rivista "Bambini" per la cortese collaborazione.



Thursday, May 29, 2014

Bookinprogress: come la scuola costruisce la società della conoscenza


Nadia Cattaneo*

Nel 2010, secondo il Consiglio Europeo tenuto a Lisbona all’inizio del Secondo Millennio, sarebbe arrivato a compimento il processo che avrebbe reso l’Europa, e quindi l’Italia, la  più competitiva e dinamica economia della conoscenza del mondo.

E’ evidente che tale processo è ancora in fieri e tale rimarrà se è vero che la conoscenza, soprattutto nell’era del postmoderno e del digitale, è in continua e rapida evoluzione.
E’ altrettanto evidente che in questo processo, che riguarda l’uomo in quanto portatore e produttore di sapere, un ruolo importante e propulsivo spetta alla scuola, se saprà trovare in sé – e intendo nelle intelligenze degli studenti e dei docenti –le risorse per cambiare i paradigmi su cui si fonda da secoli.
Ai sistemi educativi della società della conoscenza, infatti, spetta il compito di uscire dalla turris eburnea dei saperi accademici e, senza rinunciare alla serietà  della preparazione,  passare dalla scuola delle nozioni all’apprendimento per competenze, attraverso strumenti concettuali coerenti con i nuovi saperi, capaci di innescare processi di apprendimento attivi che si avvalgano del contributo delle tecnologie  a supporto della didattica secondo un disegno pedagogico e metodologico che  passi dal sapere costruito alla costruzione del sapere.
Il Bookinprogress è un’esperienza che dal 2009 all’ITE Tosi di Busto Arsizio si muove in questa direzione, sperimentando un modo diverso di essere scuola, a partire dalla realizzazione  di materiali didattici.
Il Bookinprogress prima di essere un prodotto è un'idea, un progetto, per rinnovare i modelli tradizionali di insegnamento.
Si tratta di  materiali didattici  autoprodotti da docenti della Rete Bookinprogress a misura dei loro studenti: più accessibili nel linguaggio;  economici, perché le famiglie pagano solo il costo della stampa e così possono  investire di più in tecnologia; in progress, perché  continuamente aggiornati dalla ricerca-azione dell’attività didattica quotidiana, risultato dell’interazione collaborativa tra docenti e studenti.
Per ogni disciplina ci sono le conoscenze e le competenze di base, fondamentali per garantire l’uguaglianza del diritto allo studio; l’attività didattica originale del singolo docente per la sua classe arricchisce in progress il materiale con il contributo della sua ricerca, delle sue attività e di quelle dei suoi studenti, secondo il modello della didattica collaborativa e dell’apprendimento permanente.
I materiali prodotti sono flessibili e adattabili alle situazioni più varie e rendono la scuola capace di superare l’immobilismo a cui sembra destinata dall’utilizzo di strumenti tradizionali.
Il bookinprogress offre  ai singoli docenti la possibilità  di costruire percorsi sempre diversi che si adattano alla fisionomia delle proprie classi, in funzione delle esperienze che si vogliono fare ogni anno e adatte alle modalità di apprendimento degli alunni, che cambiano per esigenze e capacità anche nel corso dell’anno.
La flessibilità  del book, inoltre, rende possibile  la preparazione di materiali per le diverse abilità, per i disturbi specifici dell’apprendimento, per recuperi e approfondimenti.
Le tecnologie aggiungono valore al progetto: la trasformazione dei materiali del book da cartacei a digitali consente di lavorare direttamente in classe alla costruzione del sapere, spostando sempre più il processo dall’insegnamento all’apprendimento.
Evidentemente il ruolo dell’insegnante non viene sminuito, anzi risulta determinante nell’indirizzare le attività dei ragazzi secondo la prospettiva indicata da Edgard Morin per cui è meglio “una testa ben fatta che una testa piena”.
Con la metodologia del bookinprogress e l’ausilio delle tecnologie la lezione frontale, che riempie  le teste e prevede risposte preconfezionate, viene sostituita da attività in cui il docente guida gli studenti a trovare le fonti, a selezionare le informazioni, a porre problemi e a cercare soluzioni, a  costruire un sapere non parcellizato e  che si connette nelle varie discipline generando competenze.
Lo studente è coinvolto ed è  protagonista nella costruzione di un sapere non subìto; è provocato ad essere attivo, a cercare risposte e soluzioni diverse e molteplici a uno stesso problema ( pensiero divergente); è costretto a superare  la tentazione   del copia-incolla ( ingannevole più per se stesso che per il docente) e a essere produttore personale, se non originale, sia nei momenti di peer education sia in quelli di collaborative learning.
Si innesca in tal modo un processo graduale di rinnovamento dei paradigmi didattici, che consentirà di rendere effettivo anche il conseguimento delle competenze chiave per l’apprendimento permanente, previste dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la Raccomandazione del 18 dicembre 2006
  1. Comunicazione nella madrelingua;
  2. Comunicazione nelle lingue straniere;
  3. Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia;
  4. Competenza digitale;
  5. Imparare ad imparare;
  6. Competenze sociali e civiche;
  7. Spirito di iniziativa e imprenditorialità;
  8. Consapevolezza ed espressione culturale.
Esse sono ormai entrate nel linguaggio dei documenti delle programmazioni scolastiche e ne ispirano la progettualità.
Le prime tre sono sicuramente perseguite con strumenti consolidati e possono essere monitorate e misurate; le altre risultano meno facili da conseguire e meno evidenti se chiuse in una singola disciplina e a un solo docente.
La metodologia sottesa al progetto del Bookinprogress è un  supporto alla realizzazione di questo processo.
La competenza digitale, infatti,  esce dalle ore di informatica e diventa trasversale nell’attività didattica e formativa per il futuro cittadino, che vivrà l’era della dematerializzazione; l’utilizzo della tecnologia a scuola permette talvolta anche un gioco di ruolo tra lo studente, ludico nativo digitale, e il docente, immigrato digitale consapevole della complessità e potenzialità della rete.
L’utilizzo del book e il suo farsi in progress  sposta il focus sul metodo e la sua trasferibilità, sulla sperimentazione e sulla discussione critica dei risultati, realizzando a scuola  la didattica metacognitiva (la competenza Imparare a imparare), perché lo studente, diventando adulto, sia un cittadino consapevole e un lavoratore o un  professionista che sa utilizzare e trasferire i metodi e gli strumenti dell’apprendimento.
Una didattica che si muova in queste direzioni e con strumenti non conformisti né standard declina anche le ultime tre competenze ( competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità;consapevolezza ed espres culturale (la realizzazione e la crescita personale); capitale sociale ( la cittadinanza attiva e l’integrazione);capitale umano  (la capacità di inserimento professionale)
La rete del Bookinprogress permette ai docenti di lavorare in team. E’ organizzata come una grande scuola: i docenti della stessa disciplina si aggregano in un coordinamento disciplinare sia in presenza sia a distanza attraverso il web, confrontando e condividendo  progetto, metodologie didattiche  e format. I docenti si distribuiscono la produzione dei materiali disciplinari, di cui il coordinatore cura la correttezza, l’originalità e la coerenza rispetto al progetto iniziale condiviso. I vari materiali dei diversi coordinamenti disciplinari nazionali sono a disposizione della rete.
I docenti sono stati preparati e sono  sostenuti con corsi di formazione su modalità di team working, di comunicazione, di produzione di learning object e sull’utilizzo delle tecnologie applicate alla didattica, in un’ottica di aggiornamento in progress della loro professionalità.
Certamente l’esperienza del bookinprogress è essa stessa in fieri, non solo nella produzione di materiali ma anche nell’ affinamento pedagogico e didattico. Tuttavia, nel processo di svecchiamento della scuola, contribuisce a far uscire i docenti dalla autoreferenzialità e dal convincimento di essere i solo depositari del sapere, facendoli lavorare in team e discutendo sul fatto che “Let’s try teaching children how to think instead of what to think”.
Perché “Vi un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi viene un’età in cui si insegna ciò che non si sa, e questo si chiama ricerca” (R. Barthes)

*Preside ITE Enrico Tosi – Busto Arsizio
 
foto
Pubblicato nel numero diciassette di "Riforma della scuola", maggio 2014

La scuola a Bologna e il ddl 1260

Giancarla Codrignani

Non è da sottovalutare la notizia che lo sblocco dei finanziamenti per l'edilizia scolastica previsti da Renzi incominci a Bologna con la sperimentazione di sei scuole assolutamente "nuove". Ma non produce minor interesse l'iniziativa presentata contestualmente nella nostra città dal sottosegretario Miur Roberto Reggi della proposta di legge per un "sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni".
Non tutti sanno che il nido non è previsto in Italia da nessuna legge e che quella per gli asili "statali" - legge 444 del 1968 - nacque tardiva, con carattere assistenziale e scarsamente motivata proprio dallo Stato che la istituiva. Di conseguenza la fama degli asili bolognesi o reggiani ammirati anche dagli svedesi va attribuita esclusivamente alle priorità decise dalle politiche autonome dei Comuni. Per fare i conti con gli squilibri che ne sono derivati, oggi a Bologna gli asili statali sono il 18 % del totale del servizio, ad Ancona il 100/100 e in gran parte del Meridione mancano del tutto.
Dunque, nonostante da anni fossero state presentate proposte per dare legittimità all'estensione del processo educativo alla primissima infanzia, per la prima volta sembra che non più solo singoli partiti o singoli parlamentari, ma il governo prenda impegni non solo per eliminare un gap italiano rispetto all'Europa, ma per intervenire sull' "emergenza educativa".
Occorre infatti rendersi conto che, almeno dopo l'affermarsi delle nuove tecnologie (finora, anche tra i giovani, usate al ribasso e passivamente), ma soprattutto per l'accelerazione delle trasformazioni culturali di sistema, è urgente mettere davvero al primo posto la scuola, coinvolgendo la cittadinanza, attorno al nuovo "piano straordinario per l'infanzia". Uno degli obiettivi a cui tende il governo è anche quella di farsi portatori in Europa della richiesta di sottrarre al patto di stabilità gli investimenti in campo scolastico: una proposta degna di entrare nell'attuale, quasi invisibile campagna elettorale.
Smettiamo, dunque, di limitarci a piangere sulla scuola dopo i disastri della Gelmini, cercando di rimediare all'impoverimento perfino delle idee pedagogiche e al disagio dei docenti lasciati soli dentro la crisi: ripartiamo dai bimbi che stanno crescendo. I ragazzi che frequentano oggi le medie e le superiori, se continuano a fare ricerche usando il "copia e incolla" e passano le sere a corrispondere su facebook, a far giochini elettronici o ricerche porno, sono più a rischio di quelli della generazione precedente: se la caverà solo chi avrà cercato di entrare nella modernità con mezzi propri. Riportare, poi, i riflettori sulla scuola a partire dalla prima infanzia intercetta anche il pericolo della privatizzazione in un settore in cui sta crescendo un "fai da te" pericoloso: i bimbi finiscono in appartamenti non attrezzati con persone di buona (ma anche non buona) volontà e le famiglie si riducono alle attività custodiali a basso costo, ormai incontrollate. E' anche così che si anticipa altra decadenza delle scuole di stato, in presenza del perdurare di un indebitamento insostenibile dei Comuni che in molti luoghi rischia di compromettere anche le discutibili convenzioni.
Le sei scuole bolognesi, "nuove" nella struttura architettonica e, necessariamente, nelle idee pedagogiche possono essere un'opportunità di effetti ben più forti, ma non contrastanti (anzi!) delle ragazze con l'orecchino.....


Sunday, May 25, 2014

Diritti e competenze di cittadinanza.

Bijoy M. Trentin

Sono un incoraggiamento a fare di più e meglio contro l’omo/transfobia alcuni recenti eventi che hanno avuto un’eco mediatica: di due scuole (Liceo Stabili-Trebbiani di Ascoli Piceno, Liceo “Giulio Cesare” di Roma ) è stata contestata (con i pretesti piú diversi) la scelta di organizzare incontri o attivare percorsi educativi sulle differenze di genere e di orientamento sessuale (cfr Accolla 2014; Sasso-Sironi 2014; Winkler 2014); nelle piazze di alcune città le cosiddette “Sentinelle in piedi” si fanno difensori della «centralità» (cioè purezza) della cosiddetta “famiglia naturale” (uomo più donna: ovviamente in quest’ordine…).

L’‘accusa’ è sempre la stessa: parlare di differenze è propaganda che mira al proselitismo (tale massima spesso inibisce preventivamente gli stessi educatori, le stesse scuole). Ma anche la ‘causa’ è sempre la stessa, che si sintetizza in una sola, unica parola: omo/transfobia. È sempre viva (in forme e misure diverse) l’idea che l’omo/transessualità sia una malattia, una menomazione, un difetto (o, in àmbiti specifici, persino una colpa o un peccato): c’è stata una contaminazione (che va curata) ed è sempre in agguato il contagio (che va scrupolosamente evitato in ogni modo, anche cruento). Tale politica del disgusto (cfr Nussbaum 2011) si sostanzia di omo/transfobia, cioè di ansia, di avversione, di rabbia nei confronti delle persone Lgbt: non si tratta di una fobia come le altre (nelle quali vi è una preponderante dose di irrazionalità), ma di una ‘razionale’ coltura dell’omo/transnegatività, cioè dell’ignoranza, che è l’incapacità e la mancanza di volontà di apertura al conoscere e al comprendere (cfr Pinar 1998). L’omo/transfobia può agire in modo esplicito, attraverso l’aggressione verbale o fisica, oppure implicito, mediante il silenzio, l’isolamento e l’esclusione. In modo simile agisce anche il processo di colpevolizzazione della vittima, che può coinvolgere una persona Lgbt o una persona non-Lgbt che non rispecchia i ruoli-canoni sessuali normativi (cfr Burgio 2012; Graglia 2012; Prati, Pietrantoni, Saccinto 2011: «i ragazzi sviluppano un timore verso l’omosessualità prima ancora di essere consapevoli dello stigma ad essa associato. Infatti, il linguaggio rafforza e trasmette un’immagine negativizzata dell’omosessualità, tale per cui essere paragonati a una persona omosessuale è di per sé un’offesa»). 

Dalla politica del disgusto è necessario passare alla politica dell’umanità, caratterizzata dal rispetto, dalla curiosità, dalla capacità di immaginare l’altro e di sintonizzarsi con lui (cfr Nussbaum 2011). Dalle idee monocrome è fondamentale, mediante il confronto e l’empatia, passare ai pensieri variegati, plurali, che sanno scardinare la normatività delle ortodossie (quelle dei gruppi dominanti numericamente o socialmente). Il rispetto delle differenze e delle minoranze può avvenire solo attraverso un processo di comprensione dell’altro, in una prospettiva inclusiva, che prevede che sia sempre vigente per tutti il principio di eguaglianza. Per disinnescare e eliminare i pregiudizi e le concezioni artefatte e contraffatte devono essere garantiti e incentivati momenti specifici di dialogo e incontro, in cui le idee e le pratiche tendono a fondersi nel rispetto e nella garanzia dei diritti fondamentali. Il disgusto ha l’obiettivo di disumanizzare le persone, categorizzandole e colpendole proprio per determinate caratteristiche (razza, religione, orientamento sessuale ecc.): così sono ritenute giustificabili o meno gravi le aggressioni nei confronti di tali persone, perché queste sono considerate esseri non completamente umani, la cui presenza e natura deve essere neutralizzata (discriminazioni, segregazioni, deportazioni, cure riparative ecc.). 

I diritti umani e civili includono, ovviamente, anche i diritti delle persone Lgbt: essi dovrebbero prevedere conseguenti norme che garantiscano l’eguaglianza tra i cittadini di uno stesso Stato o ‘gruppo di Stati’. I diritti sono pieni se sono per tutti e per ciascuno/a, sono privilegi se sono solo per alcuni, sono concessioni se sono parziali. Nel mondo occidentale, le donne hanno ottenuto la parità solo di recente, dopo secoli di subordinazione, e in molti Stati del mondo ancora oggi essa è del tutto assente. Un ulteriore esempio: oggi ogni limitazione e assenza di eguaglianza tra i cittadini ha lo stesso valore che aveva un tempo la segregazione degli afroamericani: essi potevano spostarsi in autobus pubblici, abbeverarsi a fontane pubbliche, iscriversi a scuole pubbliche (ecc.), ma solo in spazi ‘riservati’, separati, con determinate caratteristiche (sempre svilenti, anche nell’aspetto esteriore, affinché fosse evidente la degradazione voluta e ricercata da chi aveva previsto tutto ciò); inoltre, era osteggiato e fortemente biasimato, considerato contro natura e immorale il matrimonio cosiddetto “interrazziale”. Oggi tali limiti sono stati abbattuti (ma altre forme di razzismo permangono…), e una nuova frontiera è rappresentata dal matrimonio egualitario e dall’adozione da parte di coppie omosessuali: istituti giuridici parziali/limitati equivalgono idealmente agli spazi che un tempo erano ‘riservati’ agli afroamericani, che potevano e dovevano vivere solo da cittadini di serie B (cfr Winkler-Strazio 2011). È bene tenere presente che il livello di condivisione deve travalicare i confini personali e individuali, lo Stato ha l’obbligo di abbattere ogni tipo di diseguaglianza, di garantire a tutti e ciascuno/a i diritti fondamentali: «la politica dell’umanità non coincide con l’approvazione delle scelte altrui o anche solo con il rispetto per le loro azioni, richiede semplicemnte di vedere gli altri come esseri umani che hanno un’eguale dignità e un eguale diritto di perseguire un’ampia gamma di scopi umani» (Nussbaum 2011, 110).

Ciò che vogliono quelli che sostengono (esplicitamente o implicitamente) che le persone Lgbt sono “sbagliate” (e vanno  corrette e, eventualmente, ‘allontanate’) è il silenzio sul tema delle differenze e dei diritti, compreso quello di avere tutele adeguate rispetto all’omo/transfobia. Essi pretendono il silenzio dalla società e dalla scuola: non si devono trattare questi temi, perché i giovani vengono fuorviati e traviati e vengono indotti all’omo/bi/transessualità: è evidente il tenore intellettuale basso e retrivo di tali discorsi. Chi sostiene tali idee vuole imbavagliare la scuola, ridurla a mera propagatrice dell’idea della purezza dell’unione tra caucasici eterosessuali e dell’impurità di ogni altro tipo di unione: secondo loro, il pluralismo è garantito dal proporre un unico modello (quello eterosessuale). Invece – evidentemente – la molteplicità e la complessità della realtà e della vita possono essere narrate solo mediante contenuti vari e multiformi. Il silenzio può essere richiesto dal mondo extrascolastico oppure da quello scolastico stesso: manifestazioni di omo/transfobia possono talora provenire anche dal personale scolastico, docenti, dirigenti scolastici, a.t.a. Fuori dalle mura scolastiche, in silenzio ‘manifestano’ anche le “Sentinelle in piedi”, che – dietro il paravento pseudo-intellettuale della lettura di libri (come se la cultura fosse asettica e neutrale e sempre giusta!) – si chiudono in un cieco mutismo, che esalta la volontà di erigere un muro che neghi la relazione e il dialogo. Questo genere di silenzio – propagandato come arma intellettuale, come disobbedienza civile (quale sovvertimento della realtà e della ragione!) – è indifferenza, è manipolazione, è connivenza, è violenza. Tali figure, ovviamente, si erigono a difensori della civiltà, di una civiltà ideale o idealizzata, cioè mai esistita, che ha visto il suo splendore socio-economico quando era composta solo da persone con le stesse identiche caratteristiche di purezza (fisica e morale).

È fondamentale che tutti siano vigili affinché le nuove acquisizioni divengano permanenti e la conquista dei diritti umani diventi una battaglia quotidiana e che non si abbassi mai la guardia: l’arretramento è sempre in agguato. Bisogna prestare la massima attenzione nel percepire ogni indizio (discorso o pratica) che possa esprimere e persino incrementare la discriminazione. Le accuse di mania di persecuzione che chi è poco empatico rivolge alle persone che denunciano i fenomeni di razzismo (in senso lato) non sono che rigurgiti da non sottovalutare. La lacerante storia novecentesca dell’Europa (discriminazioni, deportazioni, stermini di milioni di persone, capri espiatori della rabbia, della violenza, della barbarie) ha trovato una svolta in decise politiche di pace e di garanzia di diritti: per noi, oggi, è l’Unione Europea a poter consentire le trasformazioni necessarie a rendere la società piú giusta, libera e solidale: la progettualità europea non può limitarsi all’àmbito economico, ma deve continuare ad agire in modo ancora piú incisivo proprio sui diritti umani e civili, sui temi sociali e culturali. La presenza di piú pensieri, punti di vista, condizioni e esperienze conduce al pluralismo, non alla devianza, non alla malattia sociale: è evidente che la libertà di opinione e di espressione non può essere confusa in nessun modo con la possibilità di sostenere il razzismo: non vi possono essere remore nella condanna netta dei discorsi e delle pratiche che incitano alla discriminazione e all’odio (in Italia, dunque, è urgente anche un’efficace e non dimidiata legge anti-omo/transfobia). 

Solo nella prospettiva del rispetto e dell’empatia con l’altro, è possibile disinnescare e eliminare i pregiudizi e costruire nuovi modelli di vita sociale. Non è e non sarà agevole mutare i punti di vista, non considerando più contaminanti e contagiosi gli individui ritenuti non puri e non integri: dovrà mutare il principio della “normalità”, che si identifica sempre con quello della “maggioranza”, del “potere”, del “dominio”, e quindi anche con discorsi e pratiche di controllo e disciplinamento (cfr Rinaldi 2012). L’eguaglianza nelle differenze è la tensione che conduce alla garanzia di umanità e di parità di diritti per tutti e per ciascuno/a. Per scardinare i pregiudizi e gli stereotipi, bisogna da una parte condannare sempre in modo fermo e deciso (senza tentennamenti, senza attenuanti) ogni forma di discriminazione, di razzismo, dall’altra ideare e creare percorsi educativi per la prevenzione dell’omo/transfobia e per l’ideazione e la realizzazione di mondi inclusivi.

Per raggiungere gli obiettivi appena delineati, è opportuno che il curricolo scolastico sia rinnovato e che tra le competenze di cittadinanza siano inclusi anche il rispetto e la valorizzazione delle differenze di genere e di orientamento sessuale. L’accusa di voler formare idee miranti a deviare e destabilizzare la società attuale può essere ironicamente accolta nella misura in cui la devianza/deviazione e la destabilizzazione previste comportano il superamento dell’attuale società ancora sostanzialmente patriarcale e maschilista: diversamente, tale accusa risulta solo un vano tentativo di riaffermare idee e prassi di esclusione. Il curricolo, che è un complesso dispositivo per e di apprendimento, ha bisogno di essere arricchito con l’apporto di componenti cognitivo-affettive nuove: i detrattori considerano l’inserimento delle tematiche di genere e nello specifico di quelle Lgbt indottrinamento e proselitismo, dando per ovvio (dicono “naturale”) il modello caucasico-eterosessuale proposto nelle aule, che invece risulta univoco e monolitico. Tra le competenze di cittadinanza non può mancare la consapevolezza della pluralità delle situazioni e delle esperienze che la vita reale presenta o può presentare, in contrapposizione a una troppo rapidamente consolatoria visione riduzionista. La didattica deve prevedere e sperimentare essa stessa l’incontro e il confronto con le differenze: se la scuola non è inclusiva, educativamente essa fallisce nel suo obiettivo di rendere libero, responsabile e autonomo il discente. «Esperire la differenza attraverso l’incontro rimane il metodo migliore, il più dirompente, quello più entusiasmante, che fa traboccare di gioia per la scoperta vera che rappresentano gli altri. Volendo tuttavia sollecitare tutti coloro che si occupano, a vario titolo, di educazione, istruzione e formazione a trattare questi temi, bisogna anche ricordare che cosa significa sperimentare direttamente la bellezza del cambiamento di opinione, il disvelamento di pregiudizi, il rapido prendere coscienza degli stereotipi che ci portiamo dietro: attraverso segmenti formativi e, perché no, anche attraverso alcune semplici attività e poche informazioni di prima alfabetizzazione» (Batini 2014, 46). 

Introdurre le tematiche Lgbt nel curricolo, nella didattica, significa non chiudere gli occhi e accogliere tutte le sfaccettature che si possono presentare nella vita: le sfumature del reale rappresentano in modo semplificato la complessità dell’esistere, che non può essere ridotto a sbrigative categorie e etichette normative, che inibiscono ogni processo intenzionale, progettuale autonomo e responsabile. Sono individuabili tre modelli di intervento educativo relativi alle tematiche Lgbt e il bullismo omofobico: «1) il modello del silenzio, in base al quale l’omosessualità rimane un argomento tabú, troppo delicato, inaffrontabile e si assume che tutti siano eterosessuali; 2) il modello dell’uguaglianza/diversità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con altri progetti dulle differenze e le diversità volti ad aumentare l’inclusione sociale e l’equità […]; 3) il paradigma della sicurezza/legalità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con quelli volti a contrastare la violenza e il bullismo e a tutelare la sicurezza personale e la legalità» (Prati, Pietrantoni, Saccinto 2011, 14). Il primo modello è quello qui avversato (anche se è il piú diffuso, anche per ignoranza degli stessi operatori educativi, docenti e dirigenti); il secondo e il terzo hanno soprattutto pregi ma anche qualche difetto: è necessario prestare sempre particolare attenzione alla focalizzazione scolastica specifica, che è un concreto e importante punto di partenza, per avviare riflessioni di piú ampio respiro sociale; è inoltre indispensabile non ‘normalizzare’ e ‘modellizzare’ esperienze e punti di vista individuali e situati, e, nel caso del bullismo omofobico, non eccedere negli aspetti ‘vittimistici’, ma piuttosto mettere in rilievo quelli di resilienza e di “fronteggiamento attivo” delle situazioni avverse.

Per poter attivare moduli e progetti che comprendano le tematiche Lgbt, è necessario che nelle scuole vi sia un clima complessivo di inclusione e di effettiva apertura a ciò che i discenti possono vivere nel loro processo di crescita, con le loro domande, i loro dubbi, le loro convinzioni da confermare o da ridefinire. Bisogna, dunque, formare tutto il personale scolastico a tal fine, e in modo particolare gli insegnanti, che pedagogicamente e didatticamente non possono esimersi dall’affrontare le tematiche di genere e di orientamento sessuale, fin dalla scuola primaria. Dunque, è indispensabile che i docenti sappiano costruire percorsi adatti a ogni situazione e contesto concreti, coinvolgendo, con i tempi e modi opportuni, i genitori dei discenti: si tengano comunque sempre presenti la libertà di insegnamento e l’‘autonomia’ che l’istituzione scolastica e i docenti devono esercitare anche a fronte di eventuali chiusure esterne o persino interne alla scuola rispetto alle tematiche Lgbt, poiché in un contesto ostile e refrattario risulta ancora più utile e urgente l’intervento educativo in favore della valorizzazione delle differenze e la prevenzione del bullismo che può coinvolgere gli stessi studenti (cfr Montano-Andriola 2011; Gigli 2011).

Nel curricolo per lo sviluppo delle competenze di cittadinanza relative alle tematiche Lgbt sono individuabili tre dimensioni, quella dell’informazione-conoscenza, quella della comprensione-interpretazione e quella dell’immaginazione-creatività: esse sussistono solo se strettamente correlate, in modo progressivo e interdipendente tra di loro, anche se qui inevitabilmente vengono descritte in modo analitico. La dimensione dell’informazione-conoscenza prevede l’acquisizione di un patrimonio di dati e idee, di cognizioni e nuclei concettuali multiforme e interdisciplinare: è basilare la formazione dei nodi della rete conoscitiva, che rimane comunque sempre flessibile e aperta a modifiche, a ridefinizioni. La dimensione della comprensione-interpretazione include le capacità analitico-sintetiche di tipo critico: è in questo spazio concettuale che si ridefiniscono i nodi, che acquisiscono un significato piú profondo e che si predispongono a un continuo riesame, a un costante dinamismo, a una coordinata flessibilità (sono le stesse correlazioni e mappe a variare, all’interno di un orizzonte sereno, non caotico). La dimensione dell’immaginazione-creatività è quella piú vicina all’empatia, alla capacità di districare situazione complesse, di ideare e applicare soluzioni non precostituite a problemi imprevisti e imprevedibili. L’immaginazione si sintonizza con l’altro, non per renderlo un mezzo, ma per includerlo, per comprenderlo come fine (cfr Nussbaum 2011). La creatività si coniuga con l’ideazione e la messa in atto di mondi possibili, si realizza in modo perfomativo mediante i dispositivi del decentramento, dell’ironia, dello scardinamento.

Una scuola inclusiva, che accoglie e valorizza le differenze, è una scuola che mette in atto un curricolo implicito attento a specifiche tematiche, con uno sguardo intenzionale-progettuale democratico e aperto al possibile e all’eutopia: è la compenetrazione di elementi visibili (conoscenze e abilità) e invisibili (disposizioni della mente, valori, emozioni ecc.), unita alle tre dimensioni curricolari appena delineate, a consentire un elevato grado di successo nella formazione e nell’istruzione. L’abitudine, la predisposizione e la capacità di calarsi nelle questioni e nei problemi si sviluppano nel confronto, nel dialogo, e non nel mutismo, non nel disgusto. Una scuola piú umana tende a prefigurare una società piú umana, che garantisce davvero a tutti gli stessi diritti. Le competenze di cittadinanza non si identificano con l’indottrinamento e con l’immobilismo, ma con la flessibilità e la  fluidità: nella direzione di un mondo sempre piú giusto e solidale, continuamente esse non solo si trasformano, ma hanno anche un elevato potere trasformativo. 




BIBLIOGRAFIA

Dario Accolla, ‘I gay mi fanno schifo’: se l’omofobia parte dalla scuola, «ilfattoquotidiano.it» 24 maggio 2014 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/24/i-gay-mi-fanno-schifo-se-lomofobia-parte-dalla-scuola/998520).

Federico Batini, Identità sessuale: un’assenza ingiustificata. Ricerca, strumenti e informazioni per la prevenzione del bullismo omofobico a scuola, Torino: Loescher Editore, 2014.

Giuseppe Burgio, Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità, Milano-Udine: Mimesis, 2012.

Alessandra Gigli (cur.), Maestra, ma Sara ha due mamme? Le famiglie omogenitoriali nella scuola e nei servizi educativi, Milano: Guerini, 2011.

Margherita Graglia, Omofobia. Strumenti di analisi e di intervento, Roma: Carocci, 2012.

Antonella Montano - Elda Andriola, Parlare di omosessualità a scuola. Riflessioni e attività per la scuola, Trento: Erickson, 2011.

Martha C. Nussbaum, Disgusto e umanità. L’orientamento sessuale di fronte alla legge, con un saggio di Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo, tr. it. Milano: il Saggiatore, 2011 (orig. 2010).

William F. Pinar (ed.), Queer theory in education, Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates, 1998.

Gabriele Prati - Luca Pietrantoni - Elisa Saccinto, Omofobia ed eterosessismo nei contesti educativi. Le forme, le specificità e le strategie di intervento, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 6, 1 (2011).

Cirus Rinaldi (cur.), Alterazioni. Introduzione alle sociologie delle omosessualità, Milano-Udine: Mimesis, 2012.

Michele Sasso - Francesca Sironi, Omofobia: a scuola Chiesa censura. Essere gay in classe è un calvario. Ma non eravamo uno Stato laico?, «l’Espresso» 16-18 aprile 2014 (http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/04/07/news/omofobia-a-scuola-1.160104)

Matteo Winkler, Liceo Giulio Cesare, leggere un romanzo gay in aula non si può: omofobia o omofollia?, «ilfattoquotidiano.it» 29 aprile 2014 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/29/liceo-giulio-cesare-leggere-un-romanzo-gay-in-aula-non-si-puo-omofobia-o-omofollia/966927).

Matteo W. Winkler - Gabriele Strazio, L’abominevole diritto. Gay e lesbiche, giudici e legislatori, prefazione di Stefano Rodotà, Milano: il Saggiatore, 2011.


Numero diciassette di "Riforma della scuola" 
Blog tematico "Sui generis"
Maggio 2014

Friday, May 23, 2014

Una conquista fondamentale.

Il Disegno di legge n.1260 XVII LEGISLATURA del Senato

Maria Cleofe Filippi*

Qualora si arrivasse all'approvazione di questa legge sarebbe da accogliere come conquista di fondamentale importanza anche solo perché rende esigibili i principi affermati nello stesso titolo del disegno di legge:
· Riconoscimento concreto di un sistema integrato di educazione e istruzione;
· Affermazione del ruolo prioritario d'educazione e istruzione da 0 a 6 anni sulla funzione sociale e di cura;
· Riconoscimento che l'apprendimento è un diritto anche da 0 a 6 anni e che è affermato in quanto diritto a pari opportunità sia come punto d'arrivo nell'età dell'infanzia sia come premessa per pari opportunità di futuro.

Fatta questa premessa, diventa fondamentale che lo Stato si faccia garante dei livelli essenziali definiti dall'art. 6: definire la quantità e gli indicatori di qualità che si intendono uniformare e misurare sul territorio nazionale, coinvolgendo la conferenza unificata - come previsto dal comma 4 - per definire le risorse a garanzia dei livelli previsti. È questo un passaggio importante perché presuppone che nidi e scuole siano trattate come un unico sistema essenziale e integrato quindi dovranno essere previste le risorse per garantire i livelli essenziali a tutto il sistema - risorse da concordare in conferenza unificata. Ci auguriamo che questo passaggio intenda ridefinire, ampliandoli e rendendoli comparabili, i livelli d'intervento dello stato finora limitati alla sola scuola d'infanzia statale.

Un articolo importante riguarda la partecipazione economica delle famiglie (art. 10): si ritiene significativo mantenere il coinvolgimento delle famiglie, pur uscendo dalla logica del servizio a domanda individuale per praticare quella del diritto universale ed esigibile, perché la cosiddetta retta è funzionale sia a raggiungere obiettivi di sostenibilità del sistema nel suo insieme, sia a mantenere un livello di compartecipazione e responsabilizzazione delle famiglie nella costruzione di servizi di qualità sul territorio. Inoltre, non è trascurabile la funzione di ridistribuzione del reddito che si ha a sostegno delle giovani coppie - attualmente spesso con situazioni lavorative più che precarie - applicando rette individuali secondo l'indicatore ISEE.
Si ritiene però limitante introdurre - in una norma nazionale e duratura nel tempo - una percentuale massima del 20% a partire dal costo medio regionale.   All'interno della stessa regione il livello di reddito dei cittadini è diversamente distribuito fra città capoluogo di provincia e piccoli paesi magari anche dell’Appennino, per cui sarebbe importante lasciare all'autonomia degli EELL valutare quanto chiedere ai propri utenti proprio per favorire una migliore ridistribuzione del reddito, che peraltro può variare nel tempo oltreché nel contesto economico locale. Andrebbe poi valutato che la partecipazione economica delle famiglie dovrebbe essere correlata non tanto a garantire i livelli essenziali, ma la qualità e la sostenibilità dell'offerta, fattori che contengono una rilevante variabilità a seconda del tessuto locale cui si riferiscono.
Anche la scuola d'infanzia va inserita in questo articolo e la retta andrebbe quindi calcolata a partire dalle spese di funzionamento per tutti e non come ora che - per la scuola statale - si deve fare riferimento solo al costo della refezione.
Sarebbe un segnale davvero coerente e forte poter arrivare a ridurre la differenza attualmente elevata fra rette dei nidi e della scuola d'infanzia. Questo non solo rafforzerebbe il concetto d'apprendimento presente in tutto il segmento 0-6 anni, ma praticherebbe una redistribuzione dell'apprendimento e del reddito a partire dalle famiglie più deboli ed esposte.
In continuità con tale aspetto, sarebbe utile meglio specificare l'art. 14 laddove lo Stato viene chiamato a garantire una copertura finanziaria del 50 % dei costi delle scuole - da precisare - non statali del sistema, garantendo in questo modo l'esistenza del sistema integrato nelle forme e nei modi, che le diverse storie territoriali hanno costruito, e consentendo il mantenimento dell'attuale risposta statale senza escludere una diversa evoluzione del sistema integrato da concordare in Conferenza stato-regioni a tutela delle reciproche autonomie e scelte di indirizzo delle politiche d'apprendimento sostenibile intelligente e inclusivo.


*Assessore alle politiche scolastiche
del Comune di Carpi

Numero diciassette di “Riforma della scuola”. Maggio 2014


Invalsi. La voce critica di un insegnante

Lettera a "Riforma della scuola" di
Massimo Meliconi

Le polemiche sulla Prove Invalsi hanno infuriato per tutta la fine dell’anno scolastico 2012/ 13. L’arrivo di tale sistema di valutazione anche nelle classi seconde degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado e il preannunciato arrivo nelle classi quinte delle medesime scuole per l’anno prossimo hanno riacceso la discussione. Un accenno preliminare, però, da insegnante della secondaria di primo grado si impone: lo sfascio che ha la cosiddetta riforma Gelmini ha portato si sta rivelando un’onda lunga che non cessa i suoi effetti. La riduzione del numero di ore per tante materie delle scuole per ogni ordine e grado, ( un esempio clamoroso è quello di lettere per la secondaria di primo grado, ma ce ne sono tanti altri), l’aumento del numero degli alunni per classe, la riduzione complessiva dell’orario scolastico nei vari ordini di scuola e , last but not least, le drastiche riduzìoni degli investimenti nell’educazione hanno abbassato, in questi ultimi anni scolastici, non solo la quantità ma anche la qualità dell’insegnamento nella scuola Italiana. Qualsiasi collega, di qualsiasi orientamento politico e di qualsiasi impostazione didattica riconosce questo, almeno in “camera caritatis”. Di ciò, curiosamente, si parla pochissimo, ma tutto questo, in un periodo di crisi economica che sfocia in una cronica mancanza di lavoro soprattutto per i più giovani, è un segno di una crisi del sistema-paese in cui non si riconosce l’importanza di investire nell’educazione e nella formazione, che è un elemento fondamentale ( non l’unico, certo) per trovare una via d’uscita dalla crisi che ci attanaglia. Qualche tempo fa, durante l’ultimo anno scolastico, facevo notare a un rappresentante di una nota casa editrice di testi scolastici come lo stesso libro degli stessi autori e della stessa materia fosse stato, nella nuova edizione, sforbiciato in maniera significativa e gliene chiedevo la ragione: la risposta, imbarazzata, è stata che loro si erano adattati alla nuova situazione, alle richieste del ministero e che, ovviamente, i testi della concorrenza erano peggio. Gli ho risposto che ciò, al netto di tutto, non era molto consolante.
In questo quadro piuttosto fosco abbiamo avuto in questi anni la novità dell’Invalsi, che, secondo i suoi sostenitori, ci avvicina alle altre scuole europee e, più specificamente, a quei sistemi di rilevazione delle conoscenze le cui sigle sono molto note, come PISA e altri. Sono prove nazionali, somministrate in tutte le scuole della penisola e che vengono corrette, almeno per quella che è la mia esperienza, da un programma computerizzato che il ministero della Pubblica Istruzione fornisce alle singole scuole e i cui risultati vengono poi inviati al ministero stesso. Quindi test generali, validi per tutto e tutti, corretti da un computer e quindi, per definizione, asettici e oggettivi, che forniscono un quadro generale e quantificabile del livello delle competenze ( di alcune competenze) nei vari ordini di scuola su tutto il territorio nazionale, per quanto riguarda due materie come Italiano e Matematica, giudicate evidentemente fondamentali. Una notazione a questo punto è necessaria: essendo un insegnante di lettere nella scuola media, faccio notare che la prova Invalsi di italiano e matematica è parte integrante della valutazione dei singoli alunni per l’esame finale di terza media, è una delle cinque prove scritte che forniscono 5 dei sette voti che determineranno il voto ( in cifre) finale: gli altri sono il voto di ammissione all’esame e il voto del colloquio orale. Quindi c’è un ordine di scuola in cui l’Invalsi è già parte integrante della valutazione, una prova che non si può evadere e che tutti i candidati all’esame di stato di terza media devono affrontare. Su questo torneremo. La tesi che qui si vuole propugnare, aldilà di alcuni aspetti di tali prove che hanno dimostrato qualche riscontro positivo è che i test Invalsi non solo non risolvono i problemi che la scuola deve affrontare, ma sono parte integrante del generale abbassamento del livello dei nostri studenti, richiedendo abilità che si richiedevano già prima ( anche se in forma diversa) e negando altre abilità e capacità che invece erano e sono ancora, per fortuna, parte integrante della crescita educativa e culturale che si richiedeva finora alla nostra popolazione scolastica. Se i progetti di cui si vocifera verranno attuati, cioè se i famosi test saranno decisivi per le valutazione degli studenti, degli insegnanti e della singola scuola in generale, non solo per l’esame di terza media ma anche (per esempio) per l’esame della secondaria superiore, si attuerà un generale livellamento verso il basso, togliendo ai discenti al possibilità di sviluppare e dimostrare una capacità argomentativa e critica che è stata ed è la parte migliore di ciò che , faticosamente, una scuola che ha sempre avuto molti problemi , tentava e tenta ancora di fornire.
Entrando nel dettaglio tecnico, la prova di Italiano all’esame di terza media prevede una durata totale di 75 minuti, come quella di matematica, ed è composta da due brani, uno di genere letterario e uno che è sempre stata sotto forma di relazione, cioè un testo di tipo giornalistico o comunque informativo, più una serie di domande generali sulla conoscenza della lingua italiana ( una decina circa) di natura ortografica e morfo-sintattica. Il candidato deve leggere i brani e rispondere a una serie di domande ( una quindicina per brano) che prevedono sia risposte chiuse ( ci sono in genere 4 risposte, bisogna ovviamente barrare quella esatta) oppure domande aperte che prevedono che l’alunno scriva una breve risposta; nell’elenco delle risposte inviato dal ministero, c’è scritto esattamente quello che l’alunno può scrivere, quindi anche in quel caso le risposte sono comunque standardizzate. Poi risponde ai quesiti di grammatica italiana pura. Si inseriscono i dati in un computer dotato del programma di correzione, si schiaccia un tasto ed ecco il voto della prova, con la media fra il test di italiano e quello di matematica, un settimo della valutazione dell’esame di terza media. Dunque l’Invalsi non è un test mnemonico, come è stato dichiarato da più parti, è un esercizio di comprensione del testo ( per quanto riguarda la parte linguistica) con l’appendice di quesiti sulla conoscenza grammaticale della lingua italiana. Ma la comprensione di un testo, per quanto importante, è solo una parte delle abilità linguistiche che si richiedono al candidato. E qui si ritorna al punto lasciato in sospeso prima: nell’esame di terza media ci sono già due prove di Italiano e matematica: i compiti scritti che, rispettivamente preparano gli insegnanti di ciascuna scuola per i loro alunni: i titoli per il testo di italiano, tradizionalmente la prima prova scritta, e i quesiti di matematica. La prima cosa che hanno rilevato in tanti, genitori compresi, in questi anni, è stata la seguente: perché due prove di italiano e due prove di matematica? Non era sufficiente valutare il compito di italiano e quello di matematica che già esisteva? Per di più, in un testo, parlando di lingua italiana, si valuta non solo la correttezza formale, ma la conoscenza lessicale, la coerenza interna dello scritto, la capacità argomentativa e la chiarezza con cui il candidato si esprime, se si preferisce l’abilità linguistica sintetizzata nel “saper scrivere”. Sono aspetti fondamentali per valutare le abilità linguistiche, o no? E’ già successo molte volte, anche nell’esame di quest’anno, che alunni che hanno sempre avuto valutazioni molto disparate nel testo o tema che dir si voglia, nella prova Invalsi, invece, avessero invece valutazioni molto simili o addirittura sperequate a vantaggio di colui o colei che si era dimostrato più scarso nella stesura di uno scritto nel corso del triennio della scuola media . Per essere chiari, non è affatto detto che riuscire bene nei test Invalsi sia sinonimo di capacità di saper usare al meglio la nostra lingua. Per fare un esempio specifico, quest’anno due alunni, un maschio e una femmina, hanno ricevuto lo stesso voto nell’invalsi, 8. Ma nel testo, l’ alunno ha preso 7 e l’altra ha preso 10; voto finale frutto della media matematica di 7 voti: l’alunno è uscito con 7, l’alunna è uscita con 10. Livelli diversi, frutto di impegno diverso, di capacità espressive diverse, di quantità e qualità di conoscenze diverse, uguali invece per l’Invalsi. Gli altri 6 voti, e non è certo l’unico caso, hanno sconfessato i risultati del test di Italiano e matematica. Se si suppone che il futuro sia davvero in questo tipo di prove, non si andrà verso un appiattimento generale, verso una situazione standardizzata dove il compito della scuola sarà preparare gli alunni per i test finali e poco altro?
Già in questi anni, in terza media, occorre preparare gli alunni, fare prove su prove, perché l’Invalsi c’è all’esame , e su questo non si discute, togliendo tempo per altri insegnamenti a fronte poi di una generale riduzione dell’orario. Le capacità argomentative e critiche richiedono già che si conosca la grammatica italiana e si sia in grado di comprendere un testo, almeno in teoria. Poi questo ovviamente non succede sempre, ma un generale abbassamento delle richieste non migliorerà certo la situazione. La scuola italiana ha bisogno di altro, di investimenti, di qualificare realmente la professione docente : test asettici e oggettivi per verificare un livello minimo di conoscenze a livello nazionale possono probabilmente avere una loro modesta forma di utilità, ma non mi pare che siano, nella situazione data, una priorità assoluta. Possono definire uno standard, un livello minimo accettabile, ma non possono essere certo decisivi per una valutazione globale.

Numero diciassette di "Riforma della scuola". Maggio 2014